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Per approfondire

La casa e la collezione di ricordi di Luigi Mallé.

Un itinerario alla ricerca delle radici

 Andreina Griseri

 «... Non avevo che ventiquattro anni. La mia vita era già allora scura, disordinata e selvaggiamente solitaria. Non bazzicavo nessuno, evitavo persino di parlare con la gente e sempre pin mi rintanavo nel mio angolo... Mi accorgevo che i miei colleghi mi ritenevano un originale... nessuno mi somigliava e io non somigliavo a nessuno. Io sono solo, mentre loro sono tutti, mi dicevo e mi mettevo a pensare... Ma ero anche pieno di contraddizioni. Cosi, talvolta mi disgustava andare in ufficio; fino al punto che parecchie volte me ne tornai addirittura malato. Ma a un tratto, senza sapere né come né quando, mi trovavo in una zona di scetticismo e di indifferenza (in me tutto era fatto a zone), ed ecco che ridevo della mia insofferenza e del mio disgusto, e mi incolpavo di romanticismo. Una volta non volevo neppure parlare con nessuno, un'altra non solo parlavo con quella gente, ma arrivavo addirittura a voler diventare loro amico. Tutto il mio disgusto, veduto e non veduto, spariva a un tratto... A casa, soprattutto, il più del tempo leggevo.

Mi studiavo di soffocare con impressioni anche esteriori tutto quanto mi ribolliva dentro. E le sole impressioni che potessi procurarmi mi venivano dalla lettura. La lettura: senza dubbio mi giovava molto, mi agitava, mi deliziava e mi tormentava. Ma qualche volta mi annoiava mortalmente». E poi «non mi curo e non mi son mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici... Tutti fanno così; la fanno lunga e si vantano delle proprie malattie, e io magari più di tutti gli altri. Non ne discutiamo neppure... L'angoscia, alla fine, si mutava in una dolcezza vergognosa e maledetta, e in conclusione, in una vera e propria voluttà!...

E ancora «Io, per esempio, sono terribilmente orgoglioso. Sono diffidente e permaloso... E mi sento colpevole perché sono più intelligente di tutti quelli che mi circondano... Per questo risulto magari più vivo di voi. Ma guardate allora un po' più a fondo! Noi non sappiamo neppure dove stia di casa la vita adesso, e che cosa sia e come si chiami. Se ci lasciano soli, senza libri, subito ci confondiamo, con smarrimento; non sapremo che partito prendere, a che attenerci; non sapremo che cosa amare e che cosa odiare, di che cosa far conto e che cosa disprezzare. A noi ci pesa persino di essere uomini, uomini dotati di un vero, di un proprio corpo e di un proprio sangue; ci vergogniamo di questo, lo riteniamo un'ignominia e aspettiamo di diventare non so che inauditi esseri astratti... Presto inventeremo la maniera di nascere dall'idea ».

Nel tunnel aperto da Dostoevskij nei Ricordi dal sottosuolo (1864), Luigi Mallé si è specchiato e si è riconosciuto a più riprese. E aveva cercato di ancorarsi, anche lui, a una casa che doveva avere un filo conduttore rassicurante, tenuto insieme da un decoro resistente, « soppressione o meglio repressione di tutti gli aspetti indecorosi della vita »: «la mente è libera perché gli istinti sono in catene». (E il pensiero di Moravia, nella sua introduzione del 1975 ai Ricordi dal sottosuolo). La casa come una medicina, una delle tante, con qualcosa di più vero, il giardino, anzi un angolo di quel giardino fatto di angoli, e poi, anche qui, a Dronero, come nella casa borghese di Dostoevskij, l'infilata delle « stanze rituali: salotto, studio, camera da letto, bagno, cucina; con i rituali mobili e i rituali quadri e quadretti, pianoforte, libreria, samovar, servizio da the, posate, bicchieri, e, magari, anche la cosiddetta vetrina con le statuette e le tazzine di Dresda. Il tutto, poi, pulito, forbito, ordinato, lucidato, specchiante, come si conviene ».

Quella casa che lui aveva trovato e conservato come un rifugio, era diventata una immensa "valigia delle Indie", e aveva finito per contenere quanti più ricordi possibili dei viaggi che Mallé non finiva mai di intraprendere, all'interno di sé stesso. Si, le infinite puntate dentro il suo parossistico camminare dentro. Con questa bussola inquieta e decisa, che aveva moltiplicato angolazioni e quadranti, riusciva a mettere a fuoco anche gli altri itinerari, partiti dalle mappe medievistiche, alla ricerca di smalti e avori, e poi per il Rinascimento di Leon Battista Alberti, nel clima tra Firenze e Roma, nel dopoguerra, e poi Venezia e Vienna, la Danimarca; Colmar e la Spagna, per i fiamminghi e le collezioni escurialensi; il Belgio e le Fiandre, l'Olanda, la Svizzera avevano avuto tappe religiose. Ma tutto era polarizzato a cercare luci per il sottosuolo. E poi che cosa lo aveva spinto, dopo due lauree prestigiose, lui, figlio di notai, laureato in legge e in scienze politiche, a prendere la strada della Storia dell'Arte, anzi della Storia delle Arti. Un'idea fissa, trovare un approdo a un vuoto che aveva finito per costruirgli casa e carattere, lo spazio e l'ora di ogni giorno.

È la casa di Dronero, con le sue stratificazioni di cose buone e cose di ogni giorno, dove tutto era tenuto da conto, ora aperta , investigata in ogni piega da mani attente e gentili, a dirci che cosa aveva indirizzato Mallé a Torino, negli anni dell'Università. Sono le fotografie, in quei cassetti, in quelle buste, negli album di casa, a fissare i nodi e le radici, e soprattutto una fra tutte, che conduce alla madre, e al distacco, quando il ragazzo aveva quindici anni. La riconosciamo nelle stagioni felici — fidanzata, sposa, e poi con il bambino, con il ragazzo — in casa e in giardino; lei in montagna, con turbante e una casacca di seta cashmere, sorriso in pelle, luminoso e pensoso. Un profilo che ricorda il The Guardian Angel nella fotografia di mano di Julia Margaret Cameron, 1868, luminosa e solare, una salute che rimarrà per Mallé un miraggio, un polo inarrivabile, opposto a quello che lui condivideva per il padre, un tipo all'inglese sottile, identico al figlio, quasi due riflessi 'di una identità che si distingueva solo per gli anni. Identico viso, identico sguardo, identico vestito.

E per trovare una cornice a quel ricordo della madre, Mallé aveva deciso un'altra strada, quella della storia dell'Arte. Aveva trovato un appoggio prezioso in Lorenzo Rovere, già direttore al Museo Civico di Torino, legato a lui da uno stretto grado di parentela, e il primo esame era stato il colloquio con questo cugino erudito come pochi, che teneva corrispondenza con tutta Europa, schedava e schedava, bibliografia e materiali (lascerà al Museo Civico il suo schedario e la sua Biblioteca, acquisita da Vittorio Viale nel 1950). Rovere e le tracce europee, ma anche, per Mallé, tanta indipendenza. La riconoscevano al Museo Civico, dove lui passava le giornate nell'ufficio della Torre, con Luciano Tamburini che additava i percorsi tra arte e letteratura, tra le raccolte di smalti, avori, porcellane, dipinti, sculture, studiati e curati con il possesso delle lingue, al plurale, compreso l'olandese; un fervore ossessivo che filtrava ogni memoria storica alla luce di infiniti confronti tra storia e filologia, ma cercava in ogni segno un altro segno, ancora.

Di qui, in quella sua difesa del vuoto, tanti approdi, e li riconosciamo nei suoi studi per Leon Battista Alberti o per Spanzotti e Gaudenzio, per gli itinerari nel Barocco, in occasione della grande mostra del 1963, per i fiamminghi e i manieristi, per l'amatissimo Settecento, dove aveva trovato, oltre Crosato e De Mura, l'onda sublime dei pastelli francesi, e ancora per le punte dell'Ottocento, i disegni di Reycend, e poi Boccardo, e per i moderni e le tensioni dell'astrattismo, con Parisot. Luci per rischiarare il sottosuolo, tra le letture e i viaggi con il Baedeker, perlustrando (velocissimo) città, chiese e cappelle, dove tutto, la "forma" del paese, quella reale e quella ideale, lo attirava; guardando all'architettura, alle sculture di ogni epoca e tecnica, accanto alla pittura e agli oggetti. E nel suo collezionismo entrava il tempo prezioso per l'amicizia, le scelte sensibilissime per regali di casa, fiori e dolci di Torino, per gli amici e le loro famiglie; l'amicizia, una delle voci più nutrite, accanto alla musica: lo stile delle sue pagine cresceva in quei ritmi, fertili e ricchi di incastri.

Ogni cosa come un antidoto di cui cercava di conoscere gli ingredienti essenziali e vitali, scartando tante sovrastrutture.

Tra le cose essenziali l'idea della casa: da Dronero a Torino, in via Bogino e poi in via Sacchi, e ancora a Dronero, con le provviste di the, con i dischi, i libri, i dipinti scelti come appunti di viaggi alla ricerca di un profilo perduto. E così la casa di Dronero, con gli angoli della madre, aveva avuto altre raccolte, altri libri, diversi da quelli della casa-palazzina aristocratica in mattoni rossi, di Lorenzo Rovere, a Torino in corso Montevecchio, con scalone d'accesso alla biblioteca, una costruzione eclettica sobria, vicina a quella iperdecorata del Vandone, con la facciata legata dai ferri battuti del Mazzuccotelli e bassorilievi di Giovan Battista Alloati, a figure ignude, art nouveau (la famosa Casa Maffei). La casa Rovere ha lasciato spazio, alla fine degli anni Sessanta, per un edificio "moderno" di Paolo Ceresa, tipico dell'area del nuovo Politecnico; la biblioteca e lo schedario sono nella sede della Galleria d'Arte Moderna. La casa di Mallé ha invece conservato a  Dronero la sua struttura, anch'essa rinnovata, con arredi tra i più significativi, un salotto, un trumeau, consolle, orologi e chaise longue, seguendo il filo di più generazioni, come era giusto.

È la casa di un grande storico delle arti, cresciuto (lui e la casa), con un'idea masochista sempre più intensa, proiettata a ripercorrere una stagione luminosa, lontana. La scelta della pittura, degli oggetti, dei disegni, compagni di quell'itinerario sempre alla ricerca di altre cose, non ha soffocato le vene di quella curiosità sofisticata. E siamo grati a Elena Ragusa per la calma intuizione che l'ha sostenuta in quel lavoro intrecciato, per averci restituito un luogo delle origini, raro, e non solo in Piemonte. E per aver seguito in ogni piega il lavoro delle schedazioni — non facili — affidate a mani giovani; un'apertura che ci dice quale può essere il clima non solo di un museo, ma di un centro di lettura, di ascolto musicale, di una casa, con finestre aperte su Dronero e oltre.

A. Griseri, in E. Ragusa (a cura di), Museo Mallé Dronero, L’Artistica Savigliano, 1995, pp.11-15.

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