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Le tracce e il filo - Mario Cordero

 

Giornata di Studi | 6 giugno 2015 | Sala Milli Chegai | Teatro Iris – Dronero

 

Il Museo Mallé in ricordo di Milli Chegai
Case Museo in Piemonte

 

LE TRACCE E IL FILO
Mario Cordero

 

 

Non avevo più avuto occasione di pensare a Milli. Anche le persone care che ci hanno lasciato sono spesso soggette alla nostra ingenerosa ma forse inevitabile dimenticanza. Eppure qualche volta – come oggi - ritornano a farci compagnia o addirittura a guidarci. Lo scrittore Nico Orengo (anche lui da molti dimenticato) autore tra l’altro di un libro dedicato all’acciuga e agli acciugai di valle Maira, ha scritto che “La memoria è come una goccia d’olio buttata nell’acqua. Può scomparire per un istante ma poi se ne torna su, sta lì, galleggia come uno sguardo su ciò che è stato.” Così mi è successo quando mi è stato chiesto di partecipare a questa giornata di memoria. Il dialogo con Milli è ricominciato subito. In genere cerco di non arrendermi alla dimenticanza (anche se invecchiando è sempre più difficile!). Ho sentito di doverlo a questa cara amica. E che mi avrebbe fatto bene. Consentitemi ancora una citazione (l’ultima, prima di entrare nel merito della piccola storia che vorrei raccontare). La traggo da un libretto di Pierre Sansot dal titolo suggestivo: “Quel che resta”.
Scrive il filosofo francese: “Il passato non è qualcosa che mi sottrae dal presente per lamentarmene e tenergli il broncio. Appartiene all’istante che sto vivendo. Gli dà spessore. I miei ricordi non suscitano in me rimpianto, ma stupore e gratitudine. Mi è stato dato molto più di quanto meritassi, a tal punto che a volte mi domando se non dovrei restituire ciò che mi è stato accordato indebitamente. Continuo a lustrare quegli istanti perfetti. La loro dolcezza aumenta. Quando mi capita di attraversare un brutto periodo, posso sempre andarli a cercare nel granaio della memoria.”
E però, parlando di amici prematuramente scomparsi, la malinconia è in agguato. Cercherò, se non di cancellarla, almeno di lasciarla sullo sfondo di riflessioni relative agli anni durante i quali ebbi occasione di incontrarmi spesso e di lavorare fianco a fianco con Milli. Erano anni felici sui quali si sarebbe purtroppo abbattuta l’ombra scura della malattia. E poi il rischio è quello di sopravvalutare il passato, di non prenderne sufficientemente le distanze, di giocare con le inevitabili amnesie per trasformarle in una sorta di amnistia per limiti ed errori che pure certamente ci furono.
Insomma, nessun reducismo, nessuna autoassoluzione, nessuna mitizzazione, nessuna canonizzazione.

 

Partirei dalla fine. Da quel lungo articolo, quasi un saggio, che Milli scrisse poco prima di morire (il 3 aprile 2004) e che Elda Gottero ebbe il merito di pubblicare su “Il drago”. Avrebbe dovuto essere la pars destruens di un discorso da continuare con proposte concrete. Non ce ne fu il tempo, ma, d’altra parte, come si fa a chiedere un investimento sul futuro ad una persona che vede il suo tempo sbriciolarsi?
Iniziava così: “So che quanto sto per scrivere susciterà un vespaio di reazioni, e onestamente me lo auguro perché se così non fosse ci sarebbe veramente da piangere.” Nessuno reagì all’analisi impietosa, dura, amara, non scevra da quella rabbia che prende alla gola chi si sente incompreso. Gli amici di Dronero mi chiesero di intervenire. Scrissi un articolo che riprendeva i temi affrontati da Milli, e quel suo ribellarsi ad un andazzo nel quale “le cose che sapeva importanti venivano considerate marginali e insignificanti da troppi avventurieri o manovali della politica locale”, dove più nessuno sembra avere la voglia e la spinta sufficiente per mettersi in gioco, dove si annidano responsabilità individuali e collettive, per riprendere le stesse parole di Milli.
Le pesava la chiusura del museo Mallé, al quale era profondamente legata, come altri amici diranno più avanti. Le pesava il pressapochismo che disattendeva una seria politica di sviluppo di Dronero e della sua valle, che trascurava l’esigenza di strutture di accoglienza turistica adeguate. Le pesava che si buttassero soldi per iniziative di corto respiro. Le pesava che si fosse dilapidato un patrimonio di iniziative che avevano caratterizzato quella che Milli definisce una “splendida stagione”.
Per capire i caratteri di quella stagione bisogna fare un passo indietro, fermandoci agli anni settanta del secolo scorso, quando si assiste ad un salto di qualità negli studi relativi al Cuneese in generale, alla valle Maira particolarmente.
Lungo tutti gli anni Settanta e fino alla metà del decennio successivo, Nuto Revelli percorre le nostre valli, raccoglie 530 testimonianze, compone un quadro drammatico della agonia della civiltà contadina, dell’abbandono delle campagne, della montagna soprattutto. Tra le testimonianze pubblicate ne “Il mondo dei vinti” (1977) e ne “L’anello forte” (1985) ben 20 sono di gente della valle Maira. La quale, peraltro, ha i suoi testimoni negli scrittori-contadini, autodidatti e pure di straordinario valore anche documentario: Pietro Ponzo e Piero Raina. Li ricordo oggi con grande affetto e riconoscenza, per l’amicizia e l’aiuto che spesso mi offrirono.
Qualche anno prima Piero Camilla, direttore della Biblioteca Civica di Cuneo, aveva messo in piedi con contributi ministeriali il Sistema Bibliotecario delle valli cuneesi, nell’ambito del quale aveva aperto posti di prestito librario nei comuni più piccoli e biblioteche nelle cittadine di fondo valle. Tutti i comuni della valle Maira ne erano dotati e la nuova biblioteca di Dronero era tra le più attive del Sistema, grazie ad un gruppo di volontari che organizza incontri, dibattiti, cineforum… E’ qui, è allora, che ho conosciuto Milli.
Anche negli studi di storia dell’arte, che le erano cari, c’era stato un rinnovamento profondo. Nel 1974 era uscito nelle edizioni della Cassa di Risparmio di Cuneo l’ “Itinerario di una provincia” della docente monregalese Andreina Griseri. Il volume segna una svolta nella percezione del patrimonio artistico della provincia. Scrive: “Il territorio, nel senso più vasto, conta come autentica piattaforma di base per ogni indagine figurativa; e ci appare sempre più logora l’abitudine di isolare come reliquie i cosiddetti capolavori, per poi affaticarsi a qualificarli con un’etichetta che provveda a inserirli in un ideale museo immaginario, staccati tanto dal contesto storico come da quello naturale che li ha prodotti; sempre più si vorrebbe la storia figurativa come un risvolto vivo, che aiutasse a capire la vocazione del territorio e il suo passato, nella sua fisionomia attuale e umana.” E continuava: “Nel caso della provincia cuneese, la parte artistica non appare certo segnata con asterischi nelle guide turistiche, o inclusa nei grandi tours ad uso dei viaggi organizzati; in realtà è piuttosto il territorio a presentarsi come protagonista…”
Dunque: un invito autorevole a studiare, farsi carico e promuovere quei “beni culturali” (avevamo incominciato a chiamarli così) che disegnano nel loro complesso multidisciplinare l’identità storico-artistica dei luoghi.
Un altro studioso di alto profilo, Giovanni Romano, invoca contemporaneamente un rinnovamento degli studi di storia dell’arte a partire da un’analisi puntuale dei caratteri di ogni singolo paesaggio storico, reclama un più attento confronto tra le discipline che porti fuori la storia dell’arte da un fatale isolamento. Fortuna vuole che gli sia affidata la Soprintendenza ai beni artistici e storici del Piemonte. Dove mette insieme una specie di task-force della tutela che non teme “le aree di confine o le terre di nessuno, che invocano una verifica a più mani”, come scriverà più tardi nei suoi “Studi sul paesaggio” (1978). Ce n’era abbastanza per stimolare e guidare la ricerca locale, l’impegno delle associazioni e delle amministrazioni pubbliche.
A Cuneo – per iniziativa del Comune e con il sostegno non solo finanziario della Regione Piemonte - si lavora ad un progetto ambizioso di nuovo museo e, prima ancora, ad un piano di studi che vedrà il concorso di storici, geografi, docenti universitari di storia dell’architettura, funzionari delle Soprintendenze (ai beni storici, con Giovanna Galante Garrone e, più tardi, Elena Ragusa, ai beni archeologici sotto la direzione della dronerese Liliana Mercando, ai beni archivistici, soprintendente Guido Gentile) funzionari – dicevo - motivati e generosi, capaci di interagire con studiosi locali, membri per lo più della Società Studi Storici, che ha da allora in Rinaldo Comba, oltre che un medievista stimato, un instancabile animatore. Il 1980 è l’anno della “Radiografia di un territorio”. Diversi contributi alla mostra ed al catalogo riguardano Dronero e Milli mi chiederà di ripubblicarli diversi anni dopo.
E’ il momento anche della Comunità Montana, presidente Ermanno Bressi, assessore alla cultura e al turismo Alberto Bersani. Nel 1987 mi chiedono di strutturare un itinerario culturale tra le borgate di Marmora e Canosio: è l’occasione per identificare le emergenze architettoniche e artistiche, per indagare i caratteri identitari delle borgate, per riaprire cappelle, ripulire sentieri, realizzare una nuova segnaletica e pubblicare un volumetto di studi, di taglio divulgativo, fin troppo modesto! Chiedo a Milli un contributo sulla parrocchiale di Canosio. Come sempre, non si tira indietro. Intanto, partecipa al Museo della Confraternita di Acceglio con uno studio sulle botteghe di ex voto nel dronerese: è iniziata quella che oggi definisco la corsa ai musei, una tendenza (cui ho partecipato anch’io, lo confesso!) a museificare tutto e dappertutto, con esiti più che modesti. Ci sarebbero state alternative. Per esempio, camminando per le borgate della valle mi capitò di incontrare spesso Luigi Massimo, che andava componendo quel suo straordinario e utilissimo repertorio fotografico dell’architettura alpina. Un modo efficace per fare memoria e suggerire interventi di restauro rispettoso.
Milli si concentra su Dronero. Con il marchio del “Centro studi cultura e territorio”, di cui è l’anima, cura il catalogo della mostra “Dronero. Un borgo rivisitato. Documenti e immagini” (1989). La sua prefazione è un invito pressante a riconoscere e valorizzare le “bellezze” del dronerese, ad opporsi al “progressivo degrado” di “strutture di giorno in giorno più fatiscenti”, ma anche alle demolizioni sconsiderate di edifici storici e a ristrutturazioni a dir poco disinvolte.
Si arricchisce, nel frattempo, la bibliografia su Dronero e valle Maira: Piero Camilla presenta la ristampa anastatica delle “Memorie storiche…” del barone Giuseppe Manuel di San Giovanni (1987); per iniziativa della Fondazione Pietro Allemandi si pubblicano studi su “Dronero 1900-1945” a cura di Michele Calandri e di chi vi parla (1990); intanto, “Il Drago” continua ad essere – allora - un contenitore stimolante di riflessioni sul dronerese e di iniziative di promozione territoriale. E poco più tardi – nel 1996 – Milli firma con me la “Guida ai luoghi, alla storia, alla gente” di “Valle Maira”, edita dall’Arciere del dronerese Enrico Conte, per la quale scrive tutte le schede storico-artistiche. La guida sarà poi riedita senza aggiornamenti e senza l’assenso degli autori una decina di anni dopo: un esito frutto di pressapochismo che ci fece davvero male.
Ma l’ambito più significativo dell’impegno di Milli è, senza alcun dubbio, il Museo Mallé, che la vede protagonista, insieme ad Elena Ragusa, di una faticosa battaglia per allestire e aprire al pubblico questo gioiellino di casa-museo, che avrà ancora – in seguito alla sua inaugurazione (1995) - una vita assai travagliata. Fino ad oggi!
La “splendida stagione” stava ormai declinando.
Eccole, alcune tracce che Milli mi e ci ha lasciato. Altri ne metteranno in evidenza certamente altre (a partire, ovviamente, dal Museo Mallé). E bisogna dire che, malgrado tutto, non sono state cancellate. Forse il filo non si è definitivamente spezzato.
A questo proposito consentitemi ancora un esempio, prima di chiudere.
Sono tornato a Marmora, qualche settimana fa, ho rifatto il giro delle borgate che avevo studiato, come ho detto, alla fine degli anni Ottanta. Mi ero ripromesso di non metterci più piede. Ero indignato, come Milli, per come, nel giro di pochi anni, il nostro lavoro fosse stato dimenticato e cancellato. Altro tempo è passato e qualcuno mi ha consigliato di tornare. Aveva ragione! Quel complesso di villaggi allora sorretto appena da una famiglia di ristoratori, da due giovani pastore e da un frate eremita è irriconoscibile. La borgata Vernetti è diventata un elegante salotto a cielo aperto, quasi tutte le case recuperate e restaurate come si deve, in piena attività il posto tappa GTA, un bar, un’osteria, un affitta camere. A Finello, il figlio di vecchi abitanti della borgata gestisce un ristorante di ottimo livello. A Brieis, che ricordo praticamente ridotta a ruderi, è aperto un B&B e ne sta per aprire un secondo. Altri B&B a Garino, ad Arata, a Torello (dove sono tornate – sia pure senza animali, se non qualche capra – le pastore di allora). A Sagna Rotonda, una borgata fantasma, abbandonata, mezza crollata allora, da qualche anno funziona un complesso ambizioso di camere e alloggi in affitto: lo chiamano “eco-villaggio”, davvero un angolo di solitudine e di bellezza alpina.
Sulla bellezza e sul turismo non invasivo sembra infatti puntare Marmora, come altri comuni della valle. Certo, non tutto è confortante: il piccolo museo di Tolosano non esiste più e la stessa borgata sta morendo; molte cappelle sarebbero ancora da restaurare; nella parrocchiale i muri vuoti dell’abside ricordano una bella via crucis su tela rubata e mai ritrovata; soprattutto, l’agricoltura e l’allevamento sono ormai drammaticamente morti. Ma insomma, in valle si sente il fiato di chi vive una scommessa sul futuro, una sfida ancora aperta a esiti diversi. Una battaglia forse non ancora vinta, ma combattuta finalmente da giovani intraprendenti e tenaci. Il mondo dei vinti è stato lasciato alle spalle. Se un filo si è spezzato, bisogna dire che i capi sono stati riannodati ed è iniziato un nuovo cammino.
E’ quello che ci aspettavamo. E’ quello che Milli si aspettava. Sempre che il caos istituzionale (seguito allo scioglimento delle Comunità Montane e della Provincia) non mortifichi speranze e investimenti sul futuro. Ancora una volta, si tratta di riannodare quei fili che in qualche modo tengono insieme il passato e il presente.
Ho premesso a questa mia testimonianza nutrita di lontane frequentazioni la citazione di un filosofo. Concludo con un altro filosofo, Remo Bodei, che mi ha suggerito il titolo di questo ricordo di Milli e della sua (ma dovrei dire nostra!) stagione. E con questa citazione concludo:
“…ammettiamo che tutti gli eventi densi di significato (sia esso traumatico o gioioso) non erogano il loro senso in una sola volta, di colpo, ma che continuano a sprigionarlo gradualmente e in tempi lunghi…La natura dell’identità non è infatti quella di un unico filo, quanto piuttosto di una corda lentamente e pazientemente intrecciata…E’ composta così dall’avvolgimento di più fili, ciascuno dei quali appartiene a una propria storia, più o meno strettamente connessa ad altre nello spazio e nel tempo. Questa corda si rafforza tanto più quanto più vengono resi visibili i fili da cui è composta, che, a loro volta, possono diventare il bandolo per nuovi nodi…Se il terreno della memoria e dell’oblio costituisce in effetti il campo di una interminabile battaglia, il ricordo, pur non essendo mai al sicuro, lotterà tenacemente per non essere sempre sconfitto.”

 

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